25 ottobre 2010
Quando facebook fa perdere gli arresti domiciliari
Navigare in rete può determinare la sostituzione degli arresti domiciliari con la più gravosa misura della custodia cautelare in carcere. Lo afferma la seconda sezione della Suprema Corte, in una concisa ma innovativa sentenza depositata il 18 ottobre (Cass., Sez. II, sentenza 18 ottobre 2010, n. 37151), che rappresenta una presa d’atto da parte dei giudici di legittimità dell’incidenza dei più avanzati mezzi di comunicazione interpersonale sulle prescrizioni che accompagnano l’applicazione di una misura cautelare personale.
In particolare, i giudici di piazza Cavour rilevano come la generica previsione di cui all’art. 284 comma 2 c.p.p. – secondo cui il giudice, “quando è necessario”, nel disporre gli arresti domiciliari “impone limiti o divieti alla facoltà dell’imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono” – vada intesa nell’ampia accezione “di divieto non solo di parlare con persone non della famiglia e non conviventi, ma anche di entrare in contatto con altri soggetti, dovendosi ritenere estesa, pur in assenza di prescrizioni dettagliate e specifiche, anche alle comunicazioni, sia vocali che scritte attraverso internet”.
L’uso della rete internet, prosegue la Corte, non può essere vietato tout court all’arrestato nel proprio domicilio, essendo consentita la navigazione che abbia esclusiva finalità “conoscitiva o di ricerca”, ma è incompatibile con gli arresti domiciliari quando usata allo scopo di entrare in contatto con altre persone tramite il web, così eludendo le prescrizioni del giudice che ha disposto la misura cautelare. Il divieto di comunicare, spiegano gli ermellini, ricomprende ogni forma verbale o scritta, potendosi estrinsecare nelle più varie modalità: ‘pizzini’, gesti, comunicazioni televisive mediate, e via discorrendo, senza che vi sia alcuna ragione per escludere le molteplici opportunità fornite dall’evoluzione tecnologica.
Il principio, espresso nella circostanza dalla Corte di Cassazione, deve quindi ritenersi valido e operante anche nel caso di utilizzazione da parte della persona agli arresti domiciliari di altri strumenti di comunicazione interpersonale a disposizione dell’internauta, dalle innumerevoli chat all’ormai classico Messenger, per finire ai più attuali e gettonati Skype e Twitter. Non è insomma il mezzo adoperato nello specifico che conta, ma la sua idoneità a realizzare un comportamento che violi la prescrizione imposta dal giudice ex art. 284 comma 2 c.p.p.
Naturalmente, come la Suprema Corte opportunamente precisa, l’eventuale violazione di detta prescrizione va dimostrata dall’accusa caso per caso, non potendosi ritenere presunta per il solo fatto dell’uso dello strumento informatico.