20 luglio 2012
Napolitano e la sindrome del Watergate
Il 17 giugno 1972 un agente della sicurezza del complesso Watergate di Washington, sede del quartier generale del Comitato nazionale democratico, scopre un’effrazione degli ingressi dello stabile e allerta la polizia, consentendo l’arresto di cinque persone colte in flagrante ad armeggiare negli uffici del Partito democratico. È l’inizio dello scandalo Watergate, che porterà all’impeachment del Presidente Richard Nixon (1913-1994) e alle sue dimissioni il 9 agosto 1974: una vicenda incentrata sulla scoperta di un sistema (illegale) di intercettazioni delle conversazioni telefoniche installato dallo staff repubblicano negli uffici dei loro avversari politici e il cui epilogo è segnato dal contenuto di alcune conversazioni riservate del Presidente captate nello Studio ovale. È infatti il nastro contenente un colloquio tra Nixon e il Capo di gabinetto della Casa Bianca, da cui emerge inequivocabilmente il tentativo di ostacolare l’inchiesta, “la pistola fumante” che costringe alla resa il Presidente.
Trent’anni dopo Giorgio Napolitano si trova a fare i conti con alcune “intercettazioni casuali” captate dalla Procura della Repubblica di Palermo nel corso dell’attività investigativa sulla cd. ‘trattativa’ tra Stato e mafia. Si tratta – secondo le indiscrezioni – di due telefonate in cui Nicola Mancino ‘caldeggia’ un intervento del Presidente affinché il Procuratore nazionale antimafia disponga il coordinamento delle indagini, sottraendole di fatto all’esclusiva dei magistrati siciliani.
È sulla sorte di tali intercettazioni e sulle modalità della loro distruzione che il nostro Capo dello Stato ha sollevato il conflitto di attribuzioni innanzi alla Corte costituzionale che costituisce il casus belli scoppiato in questi giorni.
Si tratta di una questione giuridicamente delicata e politicamente esplosiva.
L’art. 90 Cost. prevede che il Presidente della Repubblica non sia responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, escludendo i casi di ‘alto tradimento’ e di ‘attentato alla Costituzione’. Il relativo procedimento è disciplinato dalla l. 5 giugno 1989, n. 219, che blinda sostanzialmente ab initio ogni attività investigativa nei suoi confronti, prescrivendo in particolare – per quanto riguarda le intercettazioni – la preventiva autorizzazione del Parlamento, concedibile però solo dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica (art. 7).
La ragione è semplice.
Il Capo dello Stato gode nel nostro ordinamento di uno status privilegiato. È un organo di garanzia, una cerniera fondamentale tra i vari organi e poteri dello Stato. Ed è per questo che ne è stata prevista l’immunità sotto il profilo penale per gli atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni, finché è in carica, salvo che non siano volti a ‘tradire’ il suo mandato. È un garante delle istituzioni e dell’ordinamento democratico, distante anni luce da chi, come il Presidente degli Stati Uniti, decide ed attua la politica nazionale.
La risoluzione del quesito posto all’attenzione della Consulta, allora, va trovata guardando alla ratio della disciplina che regola lo ‘statuto penale’ del Presidente, in cui non è espressamente regolato il caso delle ‘intercettazioni casuali’ proprio perché la Costituzione prevede una ‘tutela rafforzata’ del Capo dello Stato rispetto ad altre figure istituzionali, in alcun modo eludibile. Si tratta, d’altronde, dell’unico caso di ‘giustizia politica’ – sottratta in toto agli organi requirenti e giudicanti della giurisdizione ordinaria – presente oggi nella nostra Carta fondamentale (art. 134 Cost.),.
I magistrati palermitani si trincerano dietro la ‘casualità’ delle captazioni, affermando di non aver strumenti normativi per disporre la distruzione delle registrazioni delle conversazioni intercettate, che pure riconoscono essere processualmente irrilevanti, essendo obbligati dal codice di rito a rimettere la decisione al giudice per le indagini preliminari. Non dicono, però, che nel caso di specie non è in gioco la rilevanza (e l’utilizzabilità) processuale delle parole captate, bensì la legittimità stessa di un’attività d’intercettazione proseguita nonostante fosse noto lo status dell’interlocutore, le cui conversazioni, pertanto, sono state registrate contra legem quando invece l’attività captativa avrebbe dovuto essere prontamente interrotta dallo stesso operatore per non generare un vulnus nelle prerogative presidenziali.
Nell’unico precedente di ‘scontro aperto’ tra Presidente della Repubblica e magistrati di una Procura della Repubblica – ricordato da molti in questi giorni – Oscar Luigi Scalfaro scelse nel febbraio 1997 una strada più soft: la questione finì nell’Aula di Palazzo Madama a seguito di un’interpellanza del Presidente emerito Francesco Cossiga e innanzi al CSM, che però l’archiviò non ravvisando alcuna responsabilità disciplinare dei magistrati della Procura milanese. In quella circostanza il Guardasigilli Giovanni Maria Flick, nel rispondere a nome del Governo, osservò che il principio di irresponsabilità delCapo dello Stato per gli atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni implica che la libertà e la segretezza delle sue comunicazioni e conversazioni «non possano essere soggette ad alcuna limitazione», non già per una sorta di privilegio personale ma in considerazione del suo ruolo istituzionale. Richiamando l’art. 7 della l. 5 giugno 1989, n. 219, Flick evidenziò che, se nei casi di alto tradimento o di attentato alla Costituzione l’intercettazione può essere disposta soltanto dopo la sospensione dalla carica, «a maggior ragione deve prefigurarsi una tutela piena in rapporto ad ipotesi di reati comuni e, a fortiori, rispetto a qualsiasi fatto penalmente irrilievante». Il divieto di intercettazione, di conseguenza, «è assoluto» in quanto le esigenze investigative cedono «il passo rispetto alle prerogative costituzionali», ed investe anche le intercettazioni indirette, non potendo «essere rimessa al sindacato successivo della autorità giudiziaria rispetto all’intrusione, la distinzione tra atti riconducibili all’esercizio delle funzioni e atti estranei a tale esercizio», come invece avviene per le guarentigie del difensore ai sensi dell’art. 105 c.p.p. ne consegue il divieto di trascrizione e quindi di deposito delle registrazioni contenenti una conversazione del Presidente della Repubblica, «sia nel caso in cui essa sia stata illecitamente disposta ed eseguita, sia nel caso in cui sia stata accidentalmente captata su utenza di terzi legittimamente sottoposta a controllo».
Una posizione netta, quella del Ministro della giustizia pro tempore, che pure riconosce la presenza di lacune normative sul punto, tali da non poter addebitare ai magistrati inquirenti un’inosservanza delle disposizioni di legge o una loro interpretazione abnorme.
Quali le conseguenze politiche di una vicenda che pone inaspettatamente in contrapposizione con parte della magistratura un Presidente che ha sempre mostrato propensione al dialogo con il potere giudiziario?
La sindrome del Watergate aleggia sul nostro Paese, la tentazione dell’impeachment affascina alcuni giornalisti e magistrati. Il tutto accade alla vigilia di un anno particolare, che vedrà l’elezione del Capo dello Stato e il rinnovo del Parlamento. Come nel 1992. E come allora si preannuncia un mutamento radicale di volti e di compagini, i cui passaggi-chiave dal punto di vista istituzionale sono nelle mani di Napolitano, che solo alcuni giorni fa ha spronato in una lettera il Parlamento a trovare un’intesa su una riforma della legge elettorale necessaria e ormai improcrastinabile.
Minarne la credibilità, in questo delicato frangente, significa sferrare un colpo probabilmente letale alla nostra già debole e barcollante democrazia, offrendo il destro a funambolici populismi, a nuovi demagoghi e a forze oscure che, sull’onda dell’ultimo furore giustizialista e sprezzanti delle istituzioni, sono pronti a scendere in campo per trarne vantaggio a spese degli italiani.
Scritto il 25-7-2012 alle ore 12:41
“Minarne la credibilità, in questo delicato frangente, significa sferrare un colpo probabilmente letale alla nostra già debole e barcollante democrazia, offrendo il destro a funambolici populismi, a nuovi demagoghi e a forze oscure che, sull’onda dell’ultimo furore giustizialista e sprezzanti delle istituzioni, sono pronti a scendere in campo per trarne vantaggio a spese degli italiani”
Malgrado la netta presa di posizione del Prof. Lorusso, del Guardasigilli e non so bene di quante altre forze ‘garantiste'(?), ligie e rispettose degli equilibri istituzionali, la prossima decisione della Consulta resta a mio avviso assolutamente aperta ad ogni soluzione_ Non trascuriamo due importanti particolari: a) le intercettazioni riguardano, oltrechè il Capo dello Stato, l’on.le Mancino neo-indagato dalla Procura palermitana; b) sono ancora recenti le polemiche innescate dalle accuse alla Corte dell’on.le Berlusconi, che più volte ha tacciato i Giudici costituzionali di ‘servilismo’ nei confronti del Presidente pro-tempore (non solo Napolitano, a dire il vero) Tutto questo col Leviatano (riforma elettorale in senso presidenzialistico) che già si aggira x il Palazzo….