27 agosto 2012
Il ping pong giudiziario lascia il cerino ai custodi dell’Ilva
«Non è compito del tribunale stabilire e come occorra intervenire nel ciclo produttivo (con i consequenziali costi di investimento) o, semplicemente, se occorra fermare gli impianti», il cui spegnimento «rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili». È questo uno dei passaggi salienti delle centoventitré pagine della motivazione, depositata ieri, del provvedimento con cui i giudici di Taranto hanno confermato lo scorso sette agosto il sequestro degli impianti a caldo dell’Ilva, scrivendo una nuova pagina in quello che è diventato un singolare ping pong tra Gip e Tribunale del Riesame.
In sostanza, pur confermando l’impostazione accusatoria che evidenzia la reiterata attività ad alto tasso inquinante consapevolmente posta in essere da amministratori e proprietari dell’azienda siderurgica, violando obblighi di legge e precisi impegni assunti con le autorità competenti e generando così un imponente disastro ambientale «ancora in atto», il Tribunale del Riesame affida ai custodi-amministratori il compito di individuare le soluzioni tecniche più opportune, da rimettere al vaglio dell’autorità giudiziaria, per rimuovere le cause di una catastrofe ambientale che ferisce ormai da anni il capoluogo jonico e il suo hinterland: misure che dovranno comunque tradursi in onerosi e impegnativi interventi la cui adozione è divenuta ormai improcrastinabile.
Ed è per questo motivo che il Riesame ha nominato quale ulteriore custode e amministratore delle aree e degli impianti sottoposti a sequestro Bruno Ferrante, nella sua qualità di presidente del Consiglio d’amministrazione e rappresentante legale dell’Ilva S.p.A., ritenuto in grado di «garantire, conoscendo le potenzialità e le dinamiche aziendali, una più efficace e tempestiva realizzazione degli interventi di risanamento dello stabilimento».
Nomina che, invece, non ha incontrato il ‘gradimento’ del Gip che, con un’ardita ordinanza dello scorso undici agosto, ne ha sancito l’incompatibilità per un asserito conflitto di interessi tra il suo ruolo di presidente dell’Ilva e gli obblighi gravanti sul custode giudiziario, dopo aver dettato il giorno precedente in un’altra ordinanza – ‘interpretativa’ del dictum del riesame – le modalità esecutive del sequestro.
E adesso?
Certamente inconsueto e paradossale è un provvedimento dell’organo ‘controllato’ che interpreta la volontà dell’organo ‘controllante’, senza peraltro attendere di leggerne e di analizzarne le giustificazioni in fatto e in diritto, finendo poi per entrare in conflitto con le sue determinazioni una volta che queste sono state rese esplicite.
Si stravolge in tal modo quella che è la dialettica tra i vari gradi del giudizio cautelare, vanificando e delegittimando la pronuncia dell’organo (collegiale) cui è demandato il compito di verificare la correttezza dell’operato del giudice che ha disposto la misura. È vero, infatti, che la materia cautelare è intrinsecamente in progress – si tratta di provvedimenti rebus sic stantibus, secondo i giuristi – e che quindi il giudice che ha pronunciato l’ordinanza cautelare ben può modificarla o revocarla, ma solo quando sia mutato lo scenario che lo ha determinato.
In questo caso, peraltro, lo ‘scarto’ tra Gip e Riesame – che ha comunque confermato il sequestro preventivo senza concedere la facoltà d’uso dei beni sequestrati (anche perché, si legge nell’ordinanza del Riesame, non richiesta dalla difesa) – non appariva neanche siderale, per cui sarebbe stato forse più opportuno attendere il deposito delle motivazioni da parte del Tribunale, tenuto conto anche della rilevanza della vicenda e delle sue implicazioni sociali. Si è preferito invece marcare, in maniera un po’ affrettata e precipitosa, un distinguo che ha ulteriormente complicato la questione (e non solo sotto il profilo giuridico), senza che ce ne fosse bisogno.
Ma tant’è.
Ora si attende la pronuncia sul ricorso presentato dalla difesa avverso le ordinanze del Gip dell’undici e del dodici agosto e, magari, qualche nuovo provvedimento ‘a sorpresa’.
La sensazione di fondo, tuttavia, è che il caso Ilva sia vissuto da alcuni dei suoi protagonisti in una dimensione di scontro eccessiva, che va al di là della canonica competizione processuale: si sono fin da subito formate fazioni contrapposte, i fautori del diritto alla vita e alla salute contro i sostenitori del diritto al lavoro, quasi che l’intera vicenda possa essere ridotta a una semplificazione ‘bianco-nero’, dimenticando che mai come in questo caso ci troviamo di fronte ad una infinità varietà di sfumature di grigio, e non solo metaforicamente se consideriamo il colore della materia prima prodotta negli impianti sequestrati.
Non è una gara, non ci saranno né vincitori né vinti.
Sono invece in discussione dei diritti fondamentali, entrambi costituzionalmente garantiti, e quindi estremamente ardua è l’opera della magistratura che – ferma restando l’individuazione di ogni responsabilità penale – dovrà trovare un accettabile equilibrio in grado di tutelare la salute dei nostri concittadini senza pregiudicare irreversibilmente l’economia del capoluogo jonico, guardando insomma al bene comune.